Azione Nazionale, Futuro e Libertà: Fini riparte dall’ideologia

Il nuovo gruppo parlamentare di Gianfranco Fini e dei 35 (ma i numeri continuano a oscillare) deputati che alla Camera (sarebbero 14 i seatori) hanno già sottoscritto l’adesione allo stesso si chiama Azione Nazionale. Che sa tanto di nostalgico ritorno ad Alleanza Nazionale, ovvero il partito nato nel gennaio 1994 e sciolto nel marzo 2009 allorchè confluì – insieme a Forza Italia – nel Popolo delle Libertà.

Tutto ciò, di primo acchitto, significa almeno due cose: innanzitutto, che il PdL – da ora in avanti – sarà ben altro rispetto al passato (perchè una sua componente importante e significativa – Fini ne è cofondatore – viene a mancare), poi va a riconoscere (ricordiamo bene l’Ulivo, vengono in mente le difficoltà riscontrate da pd nel tenere assieme la componente più di sinistra e quella più di centro) quanto l’Italia fatichi a digerire le coalizioni eterogenee.

Un editoriale della mattina di Vittorio Feltri apparso su il Giornale dice che lo scontro era inevitabile per ritrovare all’interno della maggioranza un po’ di pace e tornare a governare bene; di contro Ezio Mauro – su La Repubblica – rimarca che “l’irruzione della legalità (segmento nel quale Fini e Berlusconi hanno avuto le divergenze più evidenti, ndr) ha fatto saltare per aria il PdL”. 35 uomini alla Camera e 14 al Senato: è tutto il bottino che la terza carica istituzionale s’è riuscito ad assicurare.

A conti fatti, non è poca roba, visto che con simili numeri, il Governo sarà costretto a trattare su ogni punto per garantirsi l’effettiva continuità di mandato. E Fini, assecondando un sentimentalismo evidente (suo e dei suoi colleghi più stretti) ha deciso di ripartire da An. Ovvero dalla creatura politica che tanto duramente e a fatica era riuscito a far nascere, crescere, sfondare in sede di votazioni. In un primo momento era circolata la voce che si fosse scelto il nome “Nazione e libertà“: sarebbe sato un mix dell’esperienza precedente (An) e quella più recente (PdL).

Ma ai più non piaceva tenersi aggrappati neppure a un pezzo di nome del Popolo delle Libertà. E se occorre ripartire – si sono detti – lo si faccia da quel che più ci rappresenta. Azione Nazionale è un nome già caro alla pattuglia, la sigla An un marchio di fabbrica che da tempo non vedevano l’ora di ricucire sul petto. Se poi il nome effettivo del gruppo dovesse essere Futuro e Libertà (che tanto richiama alla memoria la fondazione politico-culturale nata per volontà di Gianfranco Fini) sarà perchè si è tenuto conto di una riflessione più articolata: non precludersi l’opportunità di poter arrivare ad un bacino di elettori più ampio (il richiamo di An non piacerebbe ai più moderati) e non dare l’idea di fare un tuffo nel passato. In sostanza, non occorre ripartire dalla politica di An, semmai reimpossessarsi di quell’idea di politica, del modo di concepirla e viverla.  Perchè in fondo, quel che è mancato ai finiani è proprio la possibilità di spendere con forza il potere dell’ideologia: il PdL nacque anche per mettere da parte ogni dogma ideologico, per diventare la casa di tutti i liberali.

Per riuscire nell’intento, ha avuto necessità di non guardare con nostalgia al passato ma costruire un partito che fosse un movimento, nel quale l’unico motore a muovere le cose fosse “la poitica del fare”. Nel quale l’ultima parola spettasse a un solo leader attorno a cui si identificasse l’intero gruppo. Lo stesso Berlusconi non usa mai la parola “partito” per parlare del PdL. Un movimento in cui le vecchie concezioni partitiche fossero cancellate: no a correnti, no al dissenso manifesto, ma un polmone messo lì per sostenere l’azione di Governo. In passato, era il contrario: dai partiti nasceva il fermento e l’esecutivo era semmai chiamato a supportare quelle decisioni, a sintetizzare.

Tant’è che nella maggioranza, chi riesce ancora a garantirsi il potere di apportare modifiche qua e là, contrattando punti all’ordine del giorno con altri lasciti, è la Lega Nord: ovvero, uno dei pochi partiti che ha saputo conservare l’impostazione di prima. Con attività sul territorio, sedi aperte con costanza certosina, punti nevralgici a identificare l’essenza stessa del Carroccio. E’ quello che avrebbe voluto fare Gianfranco Fini da un pezzo ma le circostanze e l’evoluzione della sua stessa area politica gliel’hanno impedito. Imbrigliato dal Premier, abbandonato dai “camerati” di immense battaglie, Fini ha dovuto a un certo punto fare i conti con la coscienza e con l’evidente immobilismo di ogni ideologia.

Ogni giorno una divergenza, quando si riusciva a trovare un accordo era mal di pancia per qualcuno. Più frequentemente lo stomaco doleva al Presidente della Camera, assai meno a Berlusconi che ha cominciato a sentire qualche dolore solo recentemente: ha provato a fare buon viso a cattivo gioco solo fino a che ha avuto la sicurezza che – tolti Fini e tutti i finiani – il resto della pattuglia degli ex An stava ormai con lui. Gli ex Forza Italia non sono mai stati un problema. A quel punto, il Premier è tornato a fare quello che meglio gli riesce: leader indiscusso.

E ha sradicato “l’erba cattiva”. Messo così, il Governo non può reggere a lungo, a meno che il colpo dal cilindro sia un accordo già raggiunto tra la maggioranza e qualche forza politica all’opposizione. Viene in mente Pier Ferdinando Casini e si insinua anche il pensiero dell’Api di Francesco Rutelli. Entrambe, tuttavia, sembrano ipotesi improbabili. Ma se anche si andasse a elezioni anticipate, Berlusconi è certo di avere i sondaggi dalla sua: gradimento ancora alto (dice lui, ma non si fa fatica a credere che possa essere vero) e la convinzione che la nuova An si attesti sull’1.4%. Un nulla. A sinistra continuano a dormire sonni profondi e incrociano le dita: mica le vogliono, le elezioni. Così com’è, sarebbe altro flop.

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