Il lavoro mobilita l’uomo (Alitalia inside)


Mobilità. Secondo il dizionario della lingua italiana De Mauro: comunemente, natura o proprietà di ciò che è mobile; possibilità di spostarsi o di essere spostato. Tecnicamente parlando, in tema di mercato del lavoro si definisce mobilità quel complesso di procedure per la tutela dell’occupazione, attivate in seguito all’interruzione del rapporto di lavoro tra l’impresa e i lavoratori in esubero, comprendenti l’istituzione di speciali liste di collocamento, l’attribuzione ai lavoratori di un’indennità, l’adozione di favorevoli misure finanziarie per le imprese ovvero in casi previsti dalla legge nel rapporto di lavoro alle dipendenze di amministrazioni pubbliche.


Come nel caso di Alitalia, di cui il Ministero del Tesoro è socio al 49%.


Possibilità di essere spostato, dicevamo. possibilità che sembra farsi sempre più concreta con il passare delle ore e la trattativa in fase di stallo. O meglio, ai limiti della rottura. E adesso che succede?


Forse succederà che, quasi fuori tempo massimo, le due parti troveranno un accordo. Uhm, difficile. Sindacati e cordata sono seduti al tavolo della trattativa da quasi una settimana ormai, tra incontri ufficiali e non. L’un contro l’altro armati, in un confronto che, dalle dichiarazioni rilasciate in queste ore, sembra non avere visto ancora alcuno spostamento dalle posizioni di partenza.


La Compagnia Aerea Italiana, la good company che si dovrebbe occupare del rilancio dell’azienda, ha fatto abbondantemente capire che dalla proposta iniziale non ci si muove: la palla passi ai sindacati. L’unità di intenti delle nove sigle sindacali in rappresentanza del personale dell’azienda mostra di fronte al pericolo del fallimento le prime crepe. Da una parte i piloti, decisi a qualsiasi soluzione per respingere il piano che prevede oltre 1000 esuberi, dall’altra il personale di terra e gli assistenti, che pur non contenti dei possibili 7000 “tagli”, sembrano ancora disposti a trattare. Ma con chi?


Alla luce dell’indisponibilità palesata dalla Cai a farlo, si profila per il sindacato un bivio inevitabile: cedere, che vorrebbe dire rinunciare ai propri diritti ma soprattutto perdere definitivamente credibilità di fronte al mondo del lavoro dipendente; proseguire sulla linea dura, cosa che oltre a portare al probabile fallimento dell’azienda, esporrebbe il sindacato stesso alla gogna mediatica già allestita dagli house organs del Popolo delle libertà, pronti a sparare sulla categoria rea di non avere operato scelte in favore del paese. Bella situazione, non c’è che dire.


In attesa che si definisca la questione, e senza addentrarci in una materia complessa come quella della contrattazione sindacale, ci è al momento consentito di rilevare almeno “quanto” – euro più euro meno, lavoratore mobile più lavoratore mobile meno, ci verrà a costare questa patriottica quanto inopportuna levata di scudi in favore dell’italianità dell’azienda. Che poi per inciso, la stragrande maggioranza di partecipanti alla cordata tricolore, messa in piedi dall’Esecutivo in carica, ha sedi legali e basi di investimento all’estero. Gente che evidentemente sa quanto sia conveniente fare affari fuori dal belpaese. E non è da escludersi che questo “sacrificio” che sono pronti a fare, non garantisca loro una golden share da giocarsi al momento opportuno in futuro, magari in favore dei propri gruppi finanziari. Ma andiamo avanti.


Da quanto si era capito a in aprile, in piena bagarre elettorale, l’offerta di Air France, pronta a rilevare l’Alitalia nella sua totalità – debiti compresi – prevedeva circa tremila esuberi e avrebbe fatto risparmiare a noi i 350 milioni maturati in questi mesi per ripianare il deficit di liquidità (ricordate il prestito ponte e la procedura di infrazione avviata dall’Ue per violazione degli obblighi sulla concorrenza?), oltre che portare in cassa 66 milioni per la cessione a cui vanno però sottratti i 500 milioni necessari a gestire sette anni di “mobilità” degli “esuberanti”. Tutto questo al netto dei debiti pregressi (la compagnia ha sommato un debito complessivo per 1,5 miliardi di euro che scenderebbero a 900 qualora fosse rispettato il piano di dismissione di aerei e slot) che ricadrebbero sulla bad company, ovvero noi, i contribuenti (si calcola una cifra intorno ai cento euro a testa, neonati compresi e si tratterebbe comunque di una sorta di donazione vista la privatizzazione degli utili ma naturalmente non dei debiti).


Il costo complessivo del piano Air France per il Ministero del Tesoro era dunque – facciamo a fidarsi – tra 1,2 e 2,3 miliardi di euro, fermo restando che gli esuberi non sarebbero stati più di tremila. Il piano Fenice invece, quello orchestrato dall’ad di Intesa Corrado Passera, costerà molto di più, e non solo economicamente. Tra i 4,1 e i 6,8 miliardi di euro, frutto di mancati introiti e maggiori spese, e almeno 6000 esuberi. Minimo. E chiaramente tutto all’italiana, spalmando i costi in sette anni. Con buona pace dell’Europa, del mercato, dei sindacati, e degli italiani.


A cui non resta che assistere, immobili.


Vignetta tratta dal sito Rododentro

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