Quel grido: “Ritirateli”

kabul funerale romaUn grido. La messa. E un grido.

Ritirateli, quanti morti ci devono essere ancora?

Silenzio, frasi rituali, scambiatevi un segno di pace. E un grido dalla folla, mentre le supreme cariche dello Stato, in lacrime più o  meno sincere, come Santa Messa vuole, il segno di pace se lo scambiavano. Un grido. Pace, pace, pace. Chi ha seguito la diretta tv, da qualunque punto di accesso, ha sentito quell’uomo ripetere: pace subito.

Mentre Umberto Bossi, stamattina, prima di entrare nella basilica di San Paolo, aveva detto

li abbiamo mandati noi in Afghanistan e sono tornati morti

Ha anche aggiunto che non era per questo che avevano votato. Certo. Per cosa hanno votato? Come fa un’ipotesi del genere, in Afghanistan oggi, ad essere considerata come remota? Come è possibile? Ce lo spiega oggi il comandante Usa Stanley McChrystal.

Non solo cordoglio, comunque. Alcuni, tra la folla, hanno atteso il passaggio delle bare, le hanno applaudite con compostezza. Poi, meno composti, hanno urlato in direzione presidente del consiglio, lì da quelle parti come si è detto, Silvio Berlusconi: Adesso ritirateli!. Applausi. Quanti morti ancora? Applausi.

Quanti morti ancora? Ma soprattutto: quanti di voi oggi hanno rispettato il minuto di silenzio alle 11, in memoria dei 6 parà uccisi a Kabul in un attentato kamikaze? Quanti? Quanti hanno aperto i giornali e le loro versioni on line e hanno versato una lacrima, hanno avuto il cuore stretto di fonte alle foto del piccolo Simone, due anni (gli hanno raccontato una specie di favola, per il momento, sul destino del padre), con indosso il basco del papà, il sergente maggiore Roberto Valente.

E il cuore straziato, di fronte al breve percorso di Martin Fortunato in quella chiesa. Pochi passi: si stacca dalla madre, va a baciare la bara del padre, Antonio Fortunato, e torna indietro. Siamo straziati, ma domani lo saremo già meno. E dopodomani ancora meno. e così via. I caduti di Nassiriya sono oggi di nuovo famosi, perché altri sei sono morti in una guerra che non abbiamo il coraggio di chiamare tale.

Cinismo o realtà? Non posso saperlo neppure io che scrivo. Posso sapere che qualcuno di noi ha pensato a questi seie ragazzi, li ha conosciuti per un giorno della vita, e domani li dimenticherà perché questo mondo ingloba le emozioni. Conosciamo per un giorno le loro vite, i loro bellissimi bambini, le loro esistenza perdute. O guadagnate, c’è chi la vede così. C’è l’Afghanistan. Insieme ai sei italiani sono morti degli afghani. Retoricamente, ogni giorno troppi bambini afghani muoiono in attentati.

Abbiamo letto che il padre di Martin, che era un tenente e si chiamava Antonio Fortunato, alla partenza aveva riempito lo zaino di cinque chili di caramelle e gli aveva detto: “Le porto a bambini come te”. Chi va dove si fa la guerra, o quella dissipazione mostruosa di ferocia che oggi usurpa lo stesso nome di guerra, sa bene che non si tratta di caramelle e giocattoli. Ma sa anche come diventano importanti, per lui stesso più ancora che per i bambini che gli si stringono attorno tendendo le mani, le caramelle distribuite, i quaderni, le bambole, e i sorrisi ricevuti. Simone ritroverà le frasi di suo padre che il lutto di oggi ha fatto conoscere a tutti. “Difendere gli altri, andare a fare del bene”. E non è che suo padre fosse uno cerimonioso o sdolcinato. Suo padre aveva le idee chiare sulla propria missione, e aveva scritto anche quello: “Auguro a tutti una fottuta vita di merda come la mia”.

Non so se quella presenza lì è giusta. Ho passato tutta una cena a cercare di capirlo. L’istinto direbbe di no. Ma c’è un altro istinto, di superiorità, misto ad un buonismo tutto occidentale, che mi dice che potrebbe avere un senso tentare di impedire che una legge di uno Stato di questo mondo sancisca lo stupro della propria moglie.

Non abbiamo caramelle, su questa Terra (sembra apocalittico, vero?). Solo errori.

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