Legge 309 del 28 febbraio 2006, ovvero la Fini-Giovanardi sulle droghe

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La legge Fini-Giovanardi si inserisce in una discussione, ormai decennale, centrata sul sanzionare o no il consumo personale di sostanze stupefacenti illegali. Discussione che vede contrapposti, nel caso specifico delle sostanze cosiddette leggere – cannabis e marjuana – gli antiproibizionisti, convinti assertori dello slogan “giusto o sbagliato non può essere reato” e i proibizionisti, che nel contrasto alla droga applicano la “tolleranza zero”.
La legislazione italiana in materia distingue, sin dal Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza del 1990, due “categorie di reati”, a seconda che si prefiguri la detenzione ai fini di uso personale o di spaccio. Nel primo caso ci troviamo di fronte ad un reato amministrativo, mentre nella seconda ipotesi sconfiniamo nel penale. Fin qui tutto chiaro, o quasi.
E’ risultato infatti poco chiaro, al legislatore del 2006, quale fosse il limite tra le due situazioni, così come poco chiaro dev’essere apparsa agli estensori della legge, la differenza esistente tra le varie sostanze illegali. La fretta è cattiva consigliera. Gli stessi metodi adottati per l’approvazione del decreto, senza alcun reale dibattito parlamentare, manifestano la volontà della maggioranza dell’epoca – che nel frattempo è tornata ad essere tale – una certa fretta.
Cosa dice quindi in soldoni la legge Fini-Giovanardi?

La Cina, il Tibet e la punta dell’iceberg

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I Giochi della XXIX Olimpiade verosimilmente si svolgeranno. Come da programma, dal 8 al 24 agosto 2008. Nonostante gli attacchi alla torcia olimpica siano diventati la regola. Si parla di interrompere in cammino dei tedofori, cambiarne il percorso, fare qualcosa. Cioè, non si parla di fare qualcosa per fermare quello che è stato definito il genocidio culturale di un popolo, ma delle sorti della fiaccola olimpica.
Poliziotti di tutto il mondo sono pronti a difendere quella fiamma, che lega idealmente le Olimpiadi moderne a quelle dell’antichità. Ma noi non siamo gli antichi greci e – certo di essere tutt’altro che solo in questa mia convinzione – siamo più interessati ad altre faccende.
Che si spenga pure, la fiamma.

Una fiaccola (olimpica) val bene Parigi

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Dopo Londra, Parigi. Ieri scontri nella capitale britannica. Oggi in quella francese. Perchè? Per lo sbarco della fiaccola olimpica. La fiaccola aveva un itinerario. E’ sempre così. E’ così che ne funziona il simbolismo.
La solenne marcia ha dovuto rivedere la sua solennità. Dall’alto delle solenni proteste scoppiate, la Storia si è compiuta. Solennemente, la marcia si è fermata prima del tempo. Ad agire, di nuovo, come ad Atene in occasione dell’inizio del viaggio della torcia suddetta, sono gli irriducibili di Reporters sans Frontieres. Che, a Parigi, con buona pace di Pechino, sono di casa.
Gli attivisti dell’associazione, da anni impegnata nella lotta in difesa della libertà di stampa, e i sostenitori del Tibet hanno più volte reso impossibile la vita del corteo olimpico: gli organizzatori sono arrivati a portare la torcia su un bus, “rivedendo” percorso e programmi.

La torcia della discordia

Fiamma olimpica
Recita Wikipedia: La fiamma olimpica, o fuoco olimpico è portato dalla torcia olimpica o fiaccola olimpica e brucia durante lo svolgimento dell’Olimpiade nel braciere olimpico o tripode. Recita ancora:

La fiamma è uno dei simboli dei Giochi Olimpici. Le sue origini risalgono all’Antica Grecia, quando un fuoco veniva tenuto acceso per tutto il periodo di celebrazione delle Olimpiadi antiche. Il fuoco venne reintrodotto nelle olimpiadi del 1928, e da allora fa parte del cerimoniale delle Olimpiadi moderne. Vanno distinti e tenuti separati il fuoco (fiamma) dalla torcia (fiaccola), che attraverso una staffetta viene portata in giro per il mondo, dal braciere (tripode) che mantiene la fiamma viva durante lo svolgimento delle gare. Colui che porta la fiamma olimpica viene detto tedoforo (portatore della “teda”, fiaccola cerimoniale)

Quel simbolo, antico come il mondo. Proteste, proteste e ancora proteste. Mentre in India, il muro della vergogna mostra le immagini della tragedia: la repressione cinese in Tibet.

Proteste, tante. Oggi anche a Londra. Eppure, mentre mezzo mondo, pochissimi paesi hanno insistito per sapere la verità.

La fiaccola olimpica a Piazza Tiananmen

Piazza Tiananmen
Location di assoluto simbolismo. E’ quella piazza, proprio quella. Il luogo simbolo della rivolta. Quella piazza ferma nell’immaginario comune internazionale da ormai quasi 20 anni. Quel ragazzo sconosciuto e inerme, camicia bianca, pantaloni neri, completamente disarmato che da solo si staglia davanti ad una colonna di carri armati.
Oggi, in quella stessa piazza, il presidente cinese, Hu Jintao, ha acceso, in mattinata, la controversa fiaccola olimpica. La fiaccola giunta dalla Grecia.
Via alle danze, via alla corsa che porterà il simbolo delle Olimpiadi in tutti e cinque i continenti.

Versione di Pechino: il Tibet e il Dalai Lama ricattano le Olimpiadi

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Tibet e Olimpiadi, Olimpiadi e Tibet. Sanno di poterselo permettere. Sanno che il modo e il momento sono quelli giusti. Sanno che andrà esattamente come loro vorranno. La quetione tibetana e le Olimpiadi sono diventate un binomio imprenscindibile.
Dilagano le voci e gli appoggi a livello internazionale. Per una versione ed una lettura che mettono insieme un utilizzo della ribalta mediatica indotta dai Giochi, dalle Olimpiadi, da Pechino 2008, per riuscire a rilanciare la causa del Tibet. E, attraverso la causa, la tutela dei diritti civili e umani in Cina. Diritti che, col passare dei giorni, appaiono sempre più lontani.
Pechino risponde, e lo fa a muso duro: il Dalai Lama vuole

prendere in ostaggio

e ricattare le Olimpiadi. Il mondo alla rovescia. Il mondo nello specchio di Alice.

Sabotaggio olimpico, dice la Cina. Nessuno tocchi le Olimpiadi

Olimpiadi
I politici, da ogni donde, da ogni paese, in tutti i contesti, si stanno precipitando a dire – condivisibile o meno, dall’alto di determinate ragioni o meno – che queste violenze s’hanno da fermare. Ma le Olimpiadi, nessuno le tocchi.
Nessuno le tocchi, men che mai il Dalai Lama. Il Governo cinese ha accusato il leader spirituale tibetano, di nuovo. Le proteste in Tibet hanno scatenato la reazione delle forze di sicurezza della Repubblica Popolare.

Ci sono ampia evidenza e prove abbondanti che dimostrano come gli incidenti siano stati organizzati, premeditati, diretti e incitati dalla cricca del Dalai Lama

Ampia evidenza, dunque, per il primo ministro di Pechino, Wen Jiabao. Tanto di conferenza stampa ufficiale questa mattina (ora italiana).

Tibet, appello internazionale del Dalai Lama. E’ genocidio culturale

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Le notizie passano, le notizie scappano. Possono provare a cambiarle, limitarle, segregarle. Ma sentirsi raccontare che quello che sta accadendo a Lhasa è un dramma squarcia finalmente il silenzio che pure, ancora, il governo cinese tenta di divulgare e/o manipolare. Lhasa è assidiata, presidiata da migliaia di soldati. Oggi solo sparuti gruppi hanno manifestato nelle strade della città. Praticamente deserte.
Si estendono, però. a macchia d’olio le manifestazioni, e le vittime. In altre zone dell’altipiano, soprattutto in Amdo, area d’origine del Dalai Lama, il bilancio dovrebbe essere di almeno 30 vittime. Da ieri circolano inoltre diverse voci di una marcia degli abitanti di alcune province limitrofe verso Lhasa, ma senza conferme.
Nel frattempo, il sistema di informazione cinese non si smentisce e continua la sua linea di coerenza. Dieci vittime, nulla più, e soprattutto violenze causate dai manifestanti. Le pèoche immagini che girano sono quelle della tv cinese. Che mostrano manifestanti all’assalto di negozi e macchine. Non c’è altro. Perchè non c’è un’informazione indipendente. La posizione ufficiale parla di una guerra di popolo, al fine di

battere il separatismo, denunciare e condannare gli atti malevoli di queste forze ostili e mostrare alla luce del giorno il volto odioso della cricca del Dalai Lama

Pechino val bene una messa

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Mai come nel caso delle Olimpiadi di Pechino della prossima estate, possiamo scorgere con chiarezza la sconfitta della politica e del dialogo.E la vittoria del mercato. E’ di questi giorni la diffusione, ormai annuale, del documento del Dipartimento di Stato americano in cui sono elencati i cosiddetti Paesi canaglia.
E a sorpresa, si direbbe in questi casi, non troviamo il nome della Repubblica Popolare Cinese. Corea del Nord, Birmania, Iran, Siria, Zimbabwe, Cuba, Bielorussia, Uzbekistan, Eritrea e Sudan. Stop. Cina non pervenuta. E tutto questo nonostante nel documento sia ribadito il concetto che

la Cina continua a negare alla sua popolazione diritti umani e libertà di base e continua a interferire nella attività dei media e a torturare i prigionieri. Malgrado la rapida crescita economica che ha trasformato gran parte della società cinese il governo di Pechino continua a negare ai suoi cittadini riforme politiche e il rispetto dei diritti umani di base

Decisione apparentemente inspiegabile. Risulta difficile immaginare motivi non economici per arrivare a questo silenzio sulla violazione dei diritti umani del governo comunista cinese da parte di chi, ancora oggi, lo considera una minaccia a tutti i livelli.
Meno uno, evidentemente.