Obama agli Usa: “Iraq, war is over” VIDEO. Ma in Afghanistan è terrore

La guerra è finita: le truppe americane lasciano l’Iraq e il Presidente a stelle e strisce, Barack Obama, annuncia alla Nazione di aver mantenuto la promessa. La guerra è finita: non una coda ad libitum di qualche canzone (da John Lennon ai Baustelle, scorrono generazioni di artisti che hanno musicato una frase di tale contenuto) ma il proclama dell’uomo della speranza nel momento in cui le case degli americani hanno ospitato l’intervento di Obama dallo Studio Ovale della Casa Bianca.

L’incipit: “L’Operazione Iraqi Freedom è chiusa. Da questo momento sono gli iracheni ad avere la responsabilità della sicurezza del loro paese. Questo fu il mio impegno da candidato. Dissi che avrei ritirato tutte le truppe da combattimento e l’ho fatto. Quasi centomila dei nostri soldati hanno lasciato l’Iraq“. Senza dimenticare le vittime di sette anni di conflitto inaugurato dall’amministrazione George Bush jr.: i morti statunitensi sono 4.427, tra feriti e mutilati restano coinvolti altri 34.000 soldati.

Non usa toni autocelebrativi nè evidenzia tutta la voglia di pace che aveva mostrato nel corso della campagna elettorale: un Obama pacato e serio, nessun trionfalismo ma la constatazione oggettiva dei dati di fatto: “Non si celebrano vittorie. Gli Stati Uniti hanno pagato, in vite umane e in risorse economiche, un prezzo altissimo per mettere il futuro dell’Iraq nelle mani del suo popolo, dare un nuovo inizio a questa culla della civiltà umana. Dopo un capitolo eccezionale nella storia, abbiamo assolto la nostra responsabilità, adesso è tempo di voltare pagina“.

Modi austeri, parole pesate: il Presidente non dimentica di seguire la forma (con tanto di telefonata a Bush per rendicontare su quanto stesse per accadere) e si concentra, poi, sulla sostanza: “Rendo omaggio al milione mezzo di americani in uniforme che hanno servito in Iraq. Sono fiero di essere il vostro comandante capo, avete fatto un lavoro straordinario. È ora che i dirigenti iracheni facciano un passo avanti, che prendano in mano la sicurezza del paese“.

Chi resta in Iraq – ovvero 50 mila soldati con funzioni di supporto e addestramento – rimpatrierà entro il 2011, quando il problema principale – da affrontare, da superare – sarà quello di rilanciare l’economia attraverso un incremento delle risorse da investire: “Abbiamo lavorato troppo per lasciare l’opera incompiuta. In Iraq è cruciale continuare ad assistere le forze di sicurezza locali. Poi dobbiamo proteggere il nostro personale civile, diplomatici e specialisti degli aiuti umanitari che affiancano gli sforzi del popolo iracheno per ricostruire il paese“.

Nulla a che vedere – l’Iraq – con l’Afghanistan, dove si è consumata in cinque giorni una mattanza senza memoria: ventitrè morti in meno di una settimana. Ci si preoccupa, eccome: il generale David Petraeus, nuovo comandante delle forze Usa e Nato in Afghanistan, cerca di motivare l’accaduto. Dice: “Il numero degli attacchi degli insorti è aumentato per il semplice motivo che abbiamo aumentato le nostre risorse e che riusciamo a conquistare santuari che in questi ultimi anni i Taliban avevano creato in alcune province del paese. E quando questi santuari sono minacciati è chiaro che c’è da attendersi una risposta“.

Obama ha distinto nettamente i casi di Iraq e Afghanistan ma, al contempo,  sa bene che l’opinione pubblica preme affinchè i marines tornino in America e con ogni prtobabilità darà il via a un piano di rientro graduale. Obama: “I combattimenti continueranno ad essere molto difficili“.
Allora, date le premesse – “la guerra è finita” – ci si limita a constatare che il determinativo specifico, laddove contestualizzato nel panorama più generico, si trasforma in un indeterminativo frustrante. Una guerra è finita. le altre, tutte le altre, evolvono quotidianamente.

Lascia un commento