Abu Mazen: “Sullo stato palestinese decida l’Onu”

Abu Mazen, vuole che sia l'Onu a prendere una decisione sulla Palestina

Abu Mazen ha richiesto una decisione unilaterale da parte dell’Onu sulla domanda di riconoscimento dello stato palestinese. La domanda verrà presentata all’Onu venerdì prossimo, tale operazione è necessaria secondo Abu Mazen, prima di prendere in considerazione “altre opzioni”. Tale notizia è stata data da uno dei negoziatori dell’Anp, Nabil Shaath. Il presidente dell’Anp ha dichiarato di voler incontrare Benjamin Netanyahu, a New York al termine dell’assemblea generale delle nazioni Unite.

Nabil Shaath ha dichiarato: “Il presidente ha detto: ‘vogliamo una decisione del Consiglio di sicurezza. Dopo, tutte le opzioni sono aperte’”. La decisione di Abu Mazen di portare la domanda direttamente all’Onu sicuramente porterebbe a peggiorare i rapporti con gli Stati Uniti i quali hanno dichiarato che faranno valere il loro diritto di veto riguardo la decisione di accettare o meno la domanda di Abu Mazen.

11 settembre 2010

Sono passati nove anni dall’attentato che – l’11 settembre 2001 – colpì al cuore l’America, improvvisamente vulnerabile e terorizzata dal fatto che i confini dello Stato non fossero più sinonimo di sicurezza. Al Qaeda riuscì a minare la stabilità del sistema politico-economico a stelle e strisce (di rimando, quello planetario) decidendo di seminare panico e terrore come mai nessuno prima s’era azzardato a fare. Agendo, cioè, da stranieri su territorio nemico. Sono bastati 19 attentatori ubicati su quattro aerei per lacerare gli Stati Uniti, metaforicamente e concretamente. Il crollo delle due torri gemelle (sono rimasti, al loro posto, Ground Zero e una serie di progetti da capogiro per riqualificarne l’area), simbolo indiscusso di New York (che, di rimando, è emblema della Nazione), ha fatto il paio con le 2965 vittime accertate, il cui ricordo rimane riferimento indiscusso per non dimenticare che da allora, nulla è più come prima.

Non penso certo alle aule dei palazzi fatiscenti, alle poltorne su cui adagiano pantaloni cuciti dalle più importanti maison, ai referenti delle Istituzioni di ogni angolo del pianeta. Non penso a chi ha maggiori strumenti per capire e mostrare cognizione di causa. Nè tantomeno a coloro i quali hanno facoltà tali e virtù di spicco per riuscire a prodigarsi in analisi lungimiranti, storico-politiche, socio-economiche. E neppure a chi – le cause e le conseguenze di quanto accaduto – ha modo di gestirle, controllarle, determinarle. Allora il Presidente dell’America era George Bush, ma non penso a lui. Oggi gli è subentrato Barack Obama, ma non mi riferisco neppure all’uomo del “sì, che possiamo”.

Il pensiero va alla gente comune, alla massa. A quell’insieme di persone che compone la casistica del cittadino “medio”. Mediamente informato, mediamente interessato, mediamente coinvolto. Immaginando questo tipo di individuo – lo stesso che in ogni sondagggio (quanto contano cifre e statistiche, oggi? Ci si fa la Storia, quella grande) si colloca dove sta la maggior parte – mi viene facile assimilarlo, per modo di vivere pensare agire sbagliare includere ed escludere, al maggior numero di quelle quasi tre mila vittime che non riuscirono ad arrivare al mezzogiorno di quel giorno di settembre. E’ per questo insieme di cittadini (manco a dirlo, la maggioranza del pianeta) che nulla è stato più come prima.

Perchè coloro ai quali occorreva prestare sicurezza, non si sono pù sentiti sicuri. Chi necessitava di una guida, ha fatto fatica a trovarne una. Quanti chiedevano garanzie, non si sono più sentiti garantiti. Non solo. Coloro a cui andava offerto un futuro, non l’hanno avuto. Chi aveva il diritto di riempirsi il borsellino, ha pagato lo sciacallaggio della Borsa. Quanti insegnavano il rispetto delle libertà altrui, si son visti privare della propria. A colpi di artiglieria, a furia di allarme bomba nelle metro delle principali metropoli, di inflazioni, deflagrazioni, svilimento, impauperamento, connivenze, segreti, conciliaboli, formalismi. A furia di seminare terrore, spargere paura. Partorire dalla differenza solo insofferenza.

Medio Oriente, Abu Mazen – Netanyahu: prove di pace a casa di Obama

Lo scetticismo di molti – non sono certo campate per aria le parole di Aaron David Miller, ex negoziatore Usa, che indica nella eccessiva distanza tra le parti uno dei motivi per cui l’accordo di pace pare difficilissimo – ha motivo – soprattutto storico – di esistere ma gli sviluppi degli ultimi giorni, con i negoziati svolti negli Stati Uniti alla presenza di Abu Mazen, primo  ministro palestinese, Benjamin Netanyahu, primo ministro isareliano e Barack Obama, presidente Usa in cerca del miracolo (dopo l’annuncio della conclusione del conflitto in Iraq, dove le truppe americane presenti presteranno solo opera di formazione e addestramento).

Siete le persone giuste per porre fine al conflitto“: con tali parole, Obama ha accolto i due leader, incitandoli a compiere un percorso da concludersi nel tempo di un anno. Lo stato delle cose è che Abu Mazen e Netanyahu sono già riusciti, nel loro faccia a faccia isolato, senza la presenza di nessun altro, a individuare un modus operandi al fine di portare a compimento l’intero progetto: l’ottimismo alla Casa Bianca circola senza ombra di dubbio, si è trasformato in qualcosa di più non appena i due leader hanno stretto le reciproche mani in pubblico, sotto lo sguardo di Benjamin Franklin.

Obama al telefono col MO

[Photo| Flickr] Barack Obama comincia così la sua presidenza: al telefono. E lo stile è esattamente quello che ti aspetteresti. Primo giorno di lavoro, e che ti fa l’uomo più famoso – e potente – del momento? Chiama Abu Mazen. Che quasi non ci credeva.

Ha tenuto a dirmi che ero il primo leader straniero che contattava

Poche battute, lavorare per consolidare la tregua. Subito dopo è toccato al premier israeliano Ehud Olmert, all’egiziano Hosni Mubarak, al re Abdallah di Giordania.

La precedenza data ad Abu Mazen, Il presidente palestinese contestato da Hamas, è evidentemente un segnale. Il movimento islamico ritiene scaduto il suo mandato quadriennale e dallo scorso 9 gennaio non gli riconosce più un ruolo. Dopo le bombe, Hamas non è più tornata sulla questione né sulle più volte richieste nuove elezioni in Cisgiordania.

Ora è la volta di Obama. Assicura che

opererà in piena associazione col presidente Abbas per arrivare alla pace in questa regione

Stiamo a vedere come.

Bush, fine del viaggio: l’Iran finanzia il terrorismo

Bush
Fine del viaggio in Medio Oriende per il Presidente degli Stati Uniti George W. Bush. Un’ultima tappa agguerrita, più di quelle precedenti. Perchè Bush ha lanciato oggi le sue invettive complete, dirette e inequivocabili contro l’Iran.
L’Iran che arma Hezbollah, finanzia Al Qaeda, minaccia la sicurezza mondiale. Bush parla da Abu Dhabi, la capitale degli Emirati Arabi: l’ultima tappa del tanto tribolato viaggio in Medio Oriente che ha anche visto la prima volta di Bush in Israele. L’attacco a Teheran, dunque, è diretto e senza mezzi termini. Il governo di Mahmud Ahmadinejad è per il Presidente americano il nuovo pericolo per l’umanità.
Parole, naturalmente, tradotte in tempo reale in tutte le declinazioni possibili dell’arabo e dei suoi dialetti. Parole che presto avranno conseguenze diplomatiche e internazionali. Parole dall’eco fortissima. Mahmud Ahmadinejad e il suo governo dovranno e vorranno presto replicare.

Betlemme. E’ di nuovo Natale

Bethlehem

Betlemme torna ad essere la città sfondo di ogni presepe. La Cisgiordania si colora di nuovo di Natale, racconti, leggende, storie e Storia dalle tinte forti. Le più forti. Turisti, pellegrini, gente, voci, colori. Sono decine di miglaia, e sono proprio a Betlemme. Sono qui, nella città di Gesù Bambino, per festeggiare questo Natale. Di nuovo, ancora. Per la prima volta da quando è cominciata la seconda Intifada. Era il lontano settembre del 2000.