Tibet in rivolta. Pechino usa la forza e intima la resa. La questione dei punti di vista

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Il Tibet è esploso. Il governo in esilio parla di cento cadaveri, mentre la Cina ammette ora che negli scontri di Lhasa ci sono stati dei morti. Ammette, ma fino a un certo punto. Una decina. Questo quanto riportato dall’agenzia ufficiale Nuova Cina. Che, tra l’altro, la responsabilità della tragedia e delle vittime la dà ai manifestanti tibetani.

Le vittime sono tutte civili innocenti, bruciati a morte

Riporta l’agenzia. Che aggiunge un centinaio di negozi saccheggiati.

Una questione di punti di vista. Il bilancio delle vittime, a detta del governo tibetano in esilio a Dharamsala, nel nord dell’India, sarebbe un tantino differente. Cento morti, soprattutto manifestanti. Lo comunica e chiede l’apertura di un’inchiesta da parte dell’Onu. Quindi l’immediato invio di rappresentanti a Lhasa. Per mettere, finalmente, fine, alle violenze cinesi che rappresentano violazioni continue dei diritti umani. Ma Pechino val bene una messa.

E cioè: nel recente documento del Dipartimento di Stato americano in cui sono elencati i cosiddetti Paesi canaglia, la Repubblica Popolare Cinese nun c’è. Illogu, dicesi in lingua sarda. C’è la Corea del Nord, la Birmania, l’Iran, la Siria, lo Zimbabwe, naturalmente Cuba, e poi la Bielorussia, l’Uzbekistan, l’Eritrea e il Sudan. Ma non la Cina. Per lei, però, si ribadisce nel documento:

la Cina continua a negare alla sua popolazione diritti umani e libertà di base e continua a interferire nella attività dei media e a torturare i prigionieri. Malgrado la rapida crescita economica che ha trasformato gran parte della società cinese il governo di Pechino continua a negare ai suoi cittadini riforme politiche e il rispetto dei diritti umani di base

Epperò nun c’è.

Il Primo Ministro del governo tibetano in esilio, Samdhong Rinpochè, fatto sapere di

sperare che la Cina, che ha messo fine nel passato al movimento democratico di piazza Tienanmen, agisca in questa situazione con compassione e saggezza


Ognuno, naturalmente, porta acqua al proprio mulino. E la tv cinese ha mandato in onda delle immagini da Lhasa . Immagini che presentano un punto di vista, la tesi delle violenze di origine manifestante. Quindi immagini di manifestanti all’assalto di negozi e alberghi. Niente altro. La Cina ha chiesto ufficialmente ai ribelli di arrendersi e consegnarsi entro la mezzanotte di lunedì. Un ultimatum di clemenza, a detta delle autorità, in cambio, naturalmente, di informazioni sui responsabili degli scontri avvenuti ieri.


Nessuna risposta all’ultimatum, comunque. La rivolta dei monaci e dei tibetani contrari al regime cinese non si è arrestata. Carri armati e blindati per le vie di Lhasa. E vittime, molte vittime a detta dei testimoni. Almeno ottanta cadaveri.


E’ da lunedì che sta montando la protesta. Prima erano un centinaio di persone. Man mano sono aumentate, e diventate migliaia, guidate da monaci buddisti che avevano manifestato a Lhasa e nel resto del Paese in occasione dell’anniversario della repressione del 1959 della rivolta contro i dieci anni di dominazione cinese. E che sfociò nell’esilio del Dalai Lama, leader spirituale del Tibet.


Nonostante i monaci siano stati relegati nei monasteri assediati dalla polizia cinese, migliaia di giovani hanno proseguito la protesta, scontrandosi con le forze dell’ordine.


Le proteste coraggiose dei tibetani in Tibet ci hanno reso ancor più determinati nel voler continuare questa marcia e portarla a termine. Poichè siamo testimoni di una escalation di violenze da parte del governo cinese a Lhasa, crediamo che sia importante per noi ritornare a casa per riunirci con i nostri fratelli e sorelle che stanno combattendo per sopravvivere sotto l’occupazione cinese

Parola di Chime Youngdrung, presidente del partito nazionale democratico del Tibet. E non manca la voce del Dalai Lama


Alle autorità cinesi dice:

Queste proteste sono una manifestazione del radicato risentimento del popolo tibetano sotto l’attuale governo. Mi appello ai dirigenti cinesi perché smettano di usare la forza e affrontino tale risentimento attraverso il dialogo con il popolo tibetano. Come ho sempre detto, l’unità e la stabilità ottenuti dalla violenza bruta possono al massimo essere una soluzione temporanea. E’ irrealistico aspettarsi unità e stabilità sotto un simile governo e questo non contribuirà a trovare una soluzione pacifica e durevole


E gli Usa hanno inviato un monito alla moderazione rivolto alle autorità pechinesi.

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