Libertà. Dal Tibet, il potere in una parola


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Libertà. Parola preziosa. Mi è stata ripetuta recentemente, mi è capitato di fermarmi a pensare alle sue forme e ai suoi valori. E al modo per curarla.


Libertà, libertà

Gridavano i monaci tibetani, manifestando davanti ai giornalisti stranieri portati dal ministero degli Esteri cinese in visita a Lhasa. Gli stessi che poi ne hanno riferito, in parte, le gesta.

L’agenzia Nuova Cina così aveva descritto la faccenda: la visita era stata

interrotta da un gruppo di monaci al tempio di Jokhang

per poi riprendere poco dopo.


La Cina, e la sua censura, hanno interrotto una trasmissione della rete televisiva Bbc, mentre venivano mostrate alcune immagini di Lhasa girate nella capitale tibetana. Erano immagini prodotte da un cameraman dell’Aptn. L’unico giornalista europeo che è stato invitato a partecipare è uno dei corrispondenti da Pechino del quotidiano britannico Financial Times.


E i monaci dicevano, manifestando:

Vogliamo che il Dalai Lama ritorni in Tibet, vogliamo essere liberi. Il Tibet non è libero

Pechino viene accusata di menzogne e censure. E i reporter sottolineano che i monaci ribadivano l’assurdità dell’addossare al Dalai Lama la responsabilità delle proteste.


Questi reporter internazionali. Tornati ad un supporto comunicativo, con buona pace della Cina, del tutto in silenzio non sono rimasti. E riportano le parole di questi monaci, che raccontano di essere prigionieri nel tempio dal 10 marzo. Lhasa e i suoi monasteri sono circondati dalla polizia armata da allora. E le autorità cinesi, al merito, non hanno proferito più parola.


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