Inciucio. Ovvero, la matematica non è un’opinione

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Il termine inciucio, applicato alla politica italiana, ha radici lontane. Fu l’ex Direttore de l’Unità Mino Fuccillo ad usarla la prima volta nel 1995 durante un’intervista a Massimo D’Alema per il quotidiano La Repubblica. In quell’occasione il giornalista romano coniò la parola per definire in maniera impietosa ciò che altri avevano definito più letterariamente “il patto della crostata”. La crostata era quella preparata dalla signora Letta, inappuntabile padrona di casa in una cena tra il Cavaliere e lo stesso D’Alema, su cui si ipotizzò una sorta di patto di non belligeranza tra i due partiti.


Secondo alcuni, fu l’inizio della fine della neonata Seconda Repubblica, scomparsa prematuramente dopo soli due anni di vita. Ma si sa, il tubo catodico appiattisce la realtà, ed oggi la parola non provoca più alcun sussulto, benchè, carte alla mano, sia più che prevedibile ipotizzarne un ritorno alla ribalta. La continua e naturale trasformazione del linguaggio ha poi portato alla definitiva mutazione dell’inciucio in “Governo delle larghe intese”.


Tratteniamoci e andiamo per gradi.


Già in fase di discussione del cosiddetto Porcellum – a proposito di larghe intese e Governi di unità nazionale – eminenti studiosi dei sistemi elettorali avevano abbondantemente previsto la cifra di ingovernabilità che caratterizzava il disegno di legge in discussione. Il politologo Roberto D’Alimonda in quei giorni, riferendosi al meccanismo del premio regionale al Senato, parlò di lotteria. Una lotteria basata sui premi di maggioranza su base regionale e non già nazionale. Tradotto, chi vince nella singola regione, avrà come premio il 55% dei seggi della medesima.


D’Alimonda obiettò che per ottenere una maggioranza tale da consentire al vincitore delle elezioni di governare sarebbe stato necessario che vincesse in tutte le regioni o quasi. Periodo ipotetico del terzo tipo. Ovvero dell’irrealtà. Veneto e Lombardia al PD ed Emilia e Toscana al PDL non sembrano ad esempio prevedibili. Rispetto alla situazione – ovviamente non sanata dal Governo Prodi – di due anni fa oggi, se possibile, si sta ancora peggio.


L’inserimento dei piccoli, o meglio dei grandi piccoli – leggasi Bertinotti e Casini – ha reso lo scenario ancora più imprevedibile. Laddove uno dei due – o entrambi (!) – riuscissero a superare la soglia di sbarramento per il Senato – fissata all’otto per cento su base regionale – anche in una sola regione, il banco rischierebbe di saltare e tutti i calcoli impostati dai due partitoni andrebbero a farsi strabenedire.


Ad esempio in Emilia Romagna, vincendo il PD prenderebbe i 12 seggi del premio, lasciando i restanti 9 non già al solo PDL, che vedrà presumibilmente sottrarsi 2 seggi dalla Sinistra Arcobaleno. Forse allora, ipotizza Damilano su L’Espresso, “il fair play di Uolter nei confronti di Bertinotti è molto più che buona creanza elettorale”.


Lo stesso discorso è applicabile al Lazio, con l’incognita Storace che ha indotto Berlusconi a trasformarsi per l’occasione nel Cavaliere Nero, candidando anche l’incandidabile. L’unica possibilità di evitare il pareggio è dunque azzerare nella competizione il terzo ed il quarto – e pure il quinto, non si sa mai – incomodo e serrare le fila dei fedelissimi per portare a casa il risultato.


Che, va detto, sarà comunque vada, un pareggio o poco più. A meno che… A meno che nelle uniche tre regioni veramente in bilico – Liguria, Abruzzo e Sardegna – uno dei due Golem non faccia l’asso pigliatutto. Difficile.


Come difficile appare oggi, giorno della nomina della Marcegaglia al timone di Confindustria, ed il conseguente abbandono della poltrona di viale dell’Astronomia da parte di Montezemolo, non ipotizzare un ingresso di Luca Luca a piazza Montecitorio.


Magari in un Governo delle larghe intese.

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